Taormina. Avranno luogo l’8 agosto, alle 18, nella Chiesa “Sacro Cuore di Gesù – Santa Venera” di Trappitello, i funerali di Roberto Baratta, l’imprenditore taorminese scomparso lo scorso 1° agosto dopo essere stato coinvolto il 18 luglio in un incidente stradale.
Qui di seguito, riportiamo una riflessione di Gabriella Gullotta:
“Arriva un giorno in cui cominciano a spegnersi le luci. Può succedere a vent’anni o magari nel cuore acerbo dell’adolescenza o nel cuore tenerissimo dell’infanzia. Quando, per i più disparati motivi, perdi una persona che ti è particolarmente cara o che comunque rientra nel tuo abituale orizzonte e la cui presenza ti è sempre sembrata scontata, in quel preciso momento comprendi che la tua esistenza ha un tempo delimitato, che tutti i tuoi istanti sono contati e che il conto alla rovescia è iniziato esattamente nell’istante del tuo primo respiro. In questo momento di amara consapevolezza si squarcia il velo di Maia e si consuma il rito doloroso dell’iniziazione all’età adulta a cui puoi essere più o meno attrezzato. La prospettiva cambia e ciascuno, a prescindere dall’età, cerca di costruirsi o di rafforzare gli argini di protezione per non impazzire, può essere la fede religiosa o comunque una filosofia di vita laica o il cercare di non pensare e di buttarsi a pesce nelle delizie, spesso apparenti e fugaci, del vivere e del godere. Si cominciano a compiere delle scelte determinanti. La morte assurda, inaccettabile di Roberto è uno di questi blackout da cui si esce cambiati, forse più consapevoli, forse più forti ma, nell’immediato, solo più soli. Le rielaborazioni sono lente e faticose. E pensi subito ai più piccoli, ai più indifesi e ti senti esplodere il cuore perché in molti di noi si riaprono ferite mai del tutto rimarginate. E allora cerchi di prendere la forza dai ricordi, ripercorri all’indietro il cammino che hai fatto per tamponare l’emorragia e per suturare quelle ferite. Da questo tempo passato scaturisce una forza che è la vita vissuta, la qualità degli attimi che nessuna notte maledetta può toglierti perché sono già stati, sono la trama stessa del tuo cuore: i sorrisi, le chiacchierate, gli sguardi, le carezze, i litigi, il lavoro condiviso, i silenzi intessuti insieme facendo qualcosa o non facendo nulla e mille altre cose ancora. Non importa la quantità di quel tempo ma è la sua qualità che risplende e fa la differenza su questa bilancia impietosa del presente e del futuro senza e del passato con. Io, cresciuta sulle dolci colline assolate che guardano da sempre sulla valle dell’Alcantara e sulla costa, ho avuto per la prime parte della mia esistenza un rapporto affettivo privilegiato con Trappitello, all’anagrafe risiedevo a Castelmola, ma è in questo paesino, allora molto più stretto e snello di adesso, che ho costruito le prime amicizie perché lì ho frequentato le scuole elementari e la scuola media e per gli anni delle superiori ho preso l’autobus aspettando tutte le mattine sul muretto del bar Stagnitta. Quindi per me Trappitello è una piccola patria perché di quegli anni ricordo i volti e le forme, le voci e i rumori, gli odori e i sapori. E proprio in questi giorni questi ricordi si srotolano nella mia mente come un tappeto volante che mi porta indietro a quando la piazza, con la sua fontana in cui giorno dopo giorno misuravamo la nostra crescita, lo stradone, a cui quasi tutte le case si aggrappavano e che tagliava in due il paese, e poi la scuola, cuore palpitante di essa, erano il nostro ombelico del mondo. In quella piazza correvamo al mattino prima che le maestre (che avevano nomi antichi Germana, Viola, Campanella, Italia, Gianna, Antonina), uscendo dalla cancellata di ferro sui gradini, dopo il tintinnio della campanella, ci sistemassero in fila in ordine: prima, seconda, terza, quarta, quinta e ci facessero entrare in quelle classi, allora così immense, belle, con l’armadio dei libri in fondo e con l’aiuola con le violette sul retro e in mezzo il grande atrio delle recite, delle canzoni di Natale, e in giro a sfaccendare la signora Olimpia e poi la signora Onofria, le bidelle. E poi l’uscita fuori per la ricreazione nella bella stagione, le passeggiate verso Cannizzoli o verso il torrente Santa Venera su fino al campo di calcio, uno spiazzo sterrato rubato alla praia e conteso con Don Concetto (ed ora la praia e il tempo ha ingoiato l’uno e l’altro). E poi il passaggio alle medie, in un appartamento angusto a pianterreno su via Cannizzoli, ammassati stretti stretti, per andare alla lavagna si dovevano saltare i banchi, e quando si rompeva un vetro si faceva a turno a stare seduti dietro la porta finestra sulla strada, da cui gli spifferi si infilavano generosamente. Eppure con professori di frontiera, che cambiavano quasi ogni anno, quanto abbiamo imparato, noi che facevamo ginnastica solo quando non pioveva su via Cannizzoli. Ad averne voglia, si studia bene ovunque. Questi sono gli anni che ho condiviso con Roberto, il secondo fratello di un mio compagno e il cugino di un altro mio compagno di classe. Poi le superiori, l’università, il lavoro e la marea della vita che ti sposta, ti allontana nello spazio ma tiene nel tempo questa trama fitta di ricordi che ora si assiepano. Ricucendo i lembi di quel passato con tutta la trama della mia vita vissuta altrove, scopro che quei ragazzi sono rimasti fedeli a loro stessi e alle loro origini, educati, garbati ma anche allegri e soprattutto attivi, intraprendenti e senza grilli per la testa, con grande voglia di fare e di costruire. Ricordo bene che la famiglia di Roberto aveva vissuto i primissimi anni a Varese, poi il ritorno e il lavoro durissimo e onesto del padre, l’azienda che piano piano è cresciuta con il paese e con il lavoro duro di tutta la famiglia. Loro tra i tanti che qui sono rimasti e qui lavorano onestamente per rendere giustizia alle risorse e alle opportunità, spesso sprecate di questi nostri luoghi del Sud che ancora, proprio grazie a queste vite, nonostante tutto si regge in piedi. Il puzzle si ricompone e gli anni sembrano un attimo nel disegno che si delinea e ci restituisce la simmetria delle nostre piccole vite di ragazzi di paese sia che siamo rimasti, sia che siamo andati. Questo finale del 1° agosto ti spezza e ti spiazza perché è atroce, ingiusto, inaccettabile. Ma proprio l’esperienza del dolore sedimentato ci porta altrove, ci deve condurre oltre, anche se è davvero difficile, quasi sovrumano in questo momento. Perché bisogna pensare ai piccoli, indifesi e ancora senza corazza, smarriti e soli e bisogna fare cerchio, comunità, tessere i ricordi affinché si tenti di colmare il vuoto o almeno lo si ovatti un po’ e si lanci un ponte verso il futuro fatto degli stessi valori e degli stessi principi che hanno fatto di Roberto un bravo, un bravissimo ragazzo. Fare tesoro della vita passata insieme e trasmetterne il senso e il sapore, continuare la marcia, con la stessa forza, la stessa grinta, la stessa tenacia umile e lo stesso garbo affinché ciò che ha iniziato sia compiuto. E la staffetta continui. Un ragazzo con quel coraggio e quella determinazione non può accettare che si perda tempo, vuole che ciascuno di noi, con determinazione e gentilezza, non perdiamo di vista il suo e il nostro traguardo e che continuiamo dritti verso la meta, la cui distanza nessuno di noi conosce, ma proprio per questo dobbiamo ripeterci continuamente le parole di Seneca : vivi adesso, non sprecare tempo ma impiegalo bene poiché la lunghezza della vita non si misura dai capelli bianchi o dalle rughe, ma dall’aver vissuto bene il tempo che la sorte ci ha assegnato. Tutto quello che di te ricordo e vedo e sento in questi giorni mi dice che tu hai davvero impiegato bene il tuo tempo, è proprio per questo è così difficile il distacco da te. Tocca a noi continuare a fare la nostra parte e vivere ogni nostro giorno come se fosse l’ultimo, è una grande responsabilità, ma bisogna assolverla con la grinta, il coraggio, l’intraprendenza e il tuo sorriso divertito e disarmante, Roberto. Atque in perpetuum, frater, ave atque vale. Gabriella Gullotta”.