I libri migliori sono quelli che ci consentono di leggere ciò che sta scritto in noi stessi (Giovanni Soriano).
Il Premio Campiello è stato assegnato quest’anno a Michela Murgia di Cabras, giovane scrittrice sarda, per il suo romanzo “Accabadora”. Il romanzo narra la storia di Maria Listru, “fillus de anima” di Bonaria Urrai, sarta e accabadora di Soreni; immaginario paese di una reale Sardegna degli Anni Cinquanta. Come dice l’autrice, “figlia d’anima” lei stessa, “fillus de anima” è chiamato quel figlio “generato due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un’altra”. La “accabadora”, invece, è colei che assiste il morente portando tal volta una morte pietosa. Agli occhi della comunità sarda di un tempo il suo non è il gesto di un’assassina, ma quello amorevole e pietoso di chi aiuta il destino a compiersi.
Tzia Bonari Urrai dunque è la prima madre per Maria, che, di fatto, non si sente voluta ed amata dalla madre biologica ed ultima madre per molti. Intorno alle vicende delle due protagoniste, madre e figlia per scelta, s’intreccia quella della famiglia Listru con il suo disagio economico e quella della famiglia Bastiù, colpita dalla morte a seguito di un brutto incidente del figlio maggiore Nicola. S’intrecciano però anche le vicende d’altri personaggi che hanno assunto un ruolo fondamentale, per la comprensione dei significati del romanzo, che trattando due temi così profondi, l’adozione e l’eutanasia, si presenta ricco di spunti di riflessione. Di fatto l’autrice in un’intervista dichiara che: “Il tema del libro… rimane la maternità, l’essere accabadora più che essere colei che pone fine alle sofferenze, è essere una madre estrema…. Una cosa sicuramente… è che il libro, non è una cronaca e non può servire da giustificazione per nessuna opinione sull’argomento eutanasia”. Per il lettore però sono spontanee, dopo aver letto il romanzo, una serie di domande che riguardano entrambi i temi: esiste la possibilità di una relazione di affiliazione che supera le barriere naturali e sociali? Esiste la possibilità di autorizzare qualcuno per farci morire dignitosamente? Il romanzo non dà risposte e così deve essere, ma apre un dibattito ampio portando alla luce tradizioni antiche spesso dimenticate e/o rimosse. Quello che un tempo – non esprimo giudizi morali – era un vincolo e un patto sulla parola, in un contesto in cui la parola valeva come atto burocratico, che si basava su un’economia reciproca di sussistenza, oggi è regolato da atti giuridici che devono seguire il loro iter, troppo spesso lungo, articolato e doloroso. In questo romanzo si delineano i rapporti sociali di una comunità, che ha scelto le sue norme di comportamento in maniera naturale, seguendo la tradizione, vivendo in pace e aiutandosi reciprocamente, il peso della “vita” di un individuo (povero, malato, diversamente abile, vecchio) allora non pesava soltanto sulla famiglia, come succede oggi.
Milena Privitera